Adriano Stefani Psicologo

La passività si mangia la tua vita

Ti stai passivizzando per scelta o per abitudine?

La passività si mangia la tua vita

(Tempo di lettura: 6 minuti per una lettura veloce senza pause e senza frutto; 60 minuti per una lettura attenta, che stimoli riflessioni e una reale evoluzione di coscienza)

Innanzi tutto occorre operare una distinzione: c’è passività e passività.

Un conto è la passività scelta, un altro conto è la passività inconscia. 

Anche se avrei qualcosa da fare e, nonostante ciò, decido comunque di sedermi e di godere del calore dei raggi solari sulla pelle, la mia è una passività “attivamente scelta” e, in quanto tale, è utile e costruttiva: in questo modo, infatti, mi sto rigenerando fisicamente e psichicamente al fine di essere attivo e creativo più tardi.

La passività inconscia, invece, è frutto dell’abitudine e si manifesta in modalità ripetitive di pensare, di sentire e di comportarsi, secondo degli schemi psichici inconsapevoli (e prevedibili).

La passività, sia quella scelta e cosciente, sia quella inconscia e frutto dell’abitudine, non richiede particolari sforzi o, per dirla con un linguaggio moderno, ci permette di funzionare in “modalità di risparmio energetico”.

Come vedremo, si può essere passivi a tre livelli: fisico, emotivo e mentale.

 

La passività secondo l’Analisi Transazionale

Secondo l’ottimo approccio psicologico dell’Analisi Transazionale (AT), siamo passivi ogni qual volta, a fronte di una richiesta da parte della vita, non utilizziamo appieno il nostro potenziale di pensiero e di azione per rispondervi, ma reagiamo secondo modalità infantili, inconsapevoli che, in AT vengono chiamate “copionali” perché si ripetono in modo prestabilito proprio come fa un attore che recita seguendo un determinato copione. Solo che, in questo caso, l’attore è una persona non consapevole dei propri schemi infantili e il copione rappresenta l’insieme delle soluzioni che hanno funzionato da bambini, e che oggi nella vita adulta possono essere disfunzionali o, addirittura, di ostacolo.

Ad esempio, per qualcuno da bambino fare i capricci ha funzionato: quando aveva un desiderio, chessò di gelato, se la mamma gli diceva di no, puntava i piedi, gridava e protestava finché la mamma, esasperata, per tagliar corto, gli comprava il famoso gelato. Da grande, quello stesso modo di funzionare, questo “copione”, gli può arrecare dei disagi: se protesta e grida davanti al capoufficio (o alla moglie) che gli sta negando qualcosa, questo può creare problemi lavorativi (e relazionali), piuttosto che determinare la soddisfazione del bisogno.

Jacqui Lee Schiff è stata un’importante psicologa Analista Transazionale americana. Leggere la sua biografia può essere sufficiente a indurre il lettore a sentirsi energizzato e investito dalla voglia di utilizzare il proprio agire in modo creativo e utile a sé stesso e al mondo.




Jacqui Lee Schiff
Jacqui Lee Schiff


Per Jacqui Lee Schiff, esistono quattro modalità in cui le persone divengono passive di fronte alle sfide della vita. Secondo l’autrice è importante conoscere questi quattro modi, per poi saperli riconoscere e neutralizzare in sé stessi.

Le quattro modalità di passività:

  1. Astensione.
    Esempio: al ristorante sono seduto da dieci minuti al tavolo, il cameriere gira per la sala ma non accenna a venire da me. Allora mi faccio piccino piccino, non parlo né mi muovo, rimango passivo al tavolo aspettando Godot, provando emozioni negative di sconforto e auto-attaccandomi mentalmente. Mi dico: “È inutile, non verrà mai da me perché sono poco interessante e non gli piaccio. Gli altri sono simpatici e probabilmente il cameriere è già in confidenza con loro. Anche se provo ad attirare la sua attenzione, non verrà perché presumibilmente non vuole venire da me”
    Mi sento avvilito e impotente come un bambino piccolo perché, anche se non me ne sto rendendo conto, sto rivivendo internamente i vissuti di trascuratezza che ho sperimentato nella mia infanzia, in quegli episodi di vita in cui le mie richieste sono state sistematicamente ignorate. 
    La conseguenza è che non mi attivo, non uso le mie risorse Adulte per attirare l’attenzione del cameriere e, se proprio questi è duro d’orecchi, alzarmi e andarlo a chiamare.
     
  2. Iperadattamento.
    Esempio: torno a casa dopo una giornata di lavoro e trovo il mio coniuge (di qualsiasi sesso esso/a sia) seduto in poltrona a giocare ai videogiochi, il lavandino della cucina è pieno di stoviglie usate e non vi sono indizi di un pasto caldo in preparazione. Saluto, vado in cucina, riordino la cucina e preparo la cena. Faccio tutto ciò anche se nessuno me l’ha chiesto esplicitamente. Lo do per scontato, o meglio, mi sto adattando a ciò che credo essere il desiderio del mio coniuge. Penso di star facendo la cosa giusta, ma in realtà sto agendo in modalità automatica quello che ci si aspettava da me quando ero piccolo: essere un bravo bambino che si occupa degli altri.
    Così facendo non uso le mie risorse Adulte: chiedere al coniuge di collaborare.
    Le persone iperadattate sono ben volute, lodate e cercate per questa loro caratteristica passiva, ma guai a loro se cercheranno di cambiare, iniziando a valutare le proprie opzioni senza più adattarsi automaticamente a ciò che gli altri desiderano!
     
  3. Agitazione.
    Esempio: in ufficio mi viene assegnato un nuovo compito che implica l’utilizzo di uno strumento informatico che non conosco. Seduto alla mia postazione tento invano di venire a capo del problema, inizio a provare angoscia e, inavvertitamente, comincio a tamburellare con le dita sul tavolo. Se qualcuno potesse guardare sotto al mio tavolo, vedrebbe che muovo i piedi in sincronicità col tamburellare delle dita. Il mio disagio aumenta e attacco a mangiarmi le unghie. Dopo un po’, mi alzo e vado in pausa a fumare una sigaretta. 
    Quello che faccio è intraprendere una serie di attività inutili, se l’agitazione continua finirò per mangiare troppo o chissà che altro. Quello che non faccio è utilizzare la mia capacità Adulta di pensare per risolvere il problema: attivarmi per trovare aiuto, un manuale di istruzioni, una persona che mi spieghi come far funzionare il programma informatico, etc.
     
  4. Violenza o incapacitazione.
    Esempio: sono in ufficio e mentre svolgo il mio lavoro con cura, vengo attaccato verbalmente da un cliente o da un collega e incolpato di essere negligente. In qualche modo ingoio il rospo ma, una volta tornato a casa, mi arrabbio con tutti i membri della mia famiglia, urlo e li aggredisco verbalmente.
    Questo è un comportamento passivo di “violenza”. Può sembrare strano definire passiva un’azione violenta, ma è proprio ciò che è, se si tiene conto del fatto che non sto utilizzando le mie risorse Adulte per risolvere il conflitto sul lavoro. In effetti, sto scaricando “passivamente” la mia frustrazione su delle persone innocenti sperando, inconsciamente, che qualcuno mi comprenda magicamente e, altrettanto magicamente, mi tolga le castagne dal fuoco. Naturalmente anche questa modalità passiva affonda le sue radici nelle vicende infantili
    Talvolta la “violenza” viene dopo una fase di “agitazione”, durante la quale ci si carica di energia, che poi viene espulsa e diretta violentemente verso l’esterno.
    Se la violenza viene diretta verso di sé, si parla invece di comportamento di “incapacitazione”.  

Accorgersi di utilizzare una di queste quattro modalità equivale ad udire un campanello d’allarme: non si sta utilizzando il proprio potenziale Adulto. Guai in vista!




Titolo

I quattro comportamenti passivi: un segnale di pericolo!


 

La mia esperienza

Accanto alle idee di quella che considero essere una gigantessa della psicologia, vorrei ora aggiungere qualche considerazione frutto della mia esperienza clinica. Le idee di Jacqui Lee Schiff sono utili al fine di individuare un comportamento passivo, ma nella mia esperienza di psicologo ho trovato ancora più utile usare una varietà descrittiva di comportamenti passivi inconsci che entri maggiormente nel dettaglio.

I “segni” di passività che utilizzo e che voglio ora descrivere, possono riguardare il corpo, le emozioni e la mente cognitiva.

 

Segni di passività fisica

Ci si passivizza sul piano fisico-corporale ogni volta che non si prendono in considerazione i bisogni reali del proprio corpo.

Ad esempio, siamo passivi fisicamente quando non ascoltiamo i bisogni di movimento e di attività del nostro corpo: non ci alleniamo né compiamo degli sforzi fisici utili (fare giardinaggio, pulire casa, svuotare il garage, aiutare un amico che trasloca, etc).

Inutile ricordare che dal punto di vista medico è cosa nota quanto sia salutare svolgere regolarmente dell’attività fisica e fare di tanto in tanto una salubre sudata. Spesso però le persone sono sopraffatte da stili di vita eccessivamente pieni di stimoli e di impegni. Anche se spesso i doveri non sono, a ben vedere, strettamente necessari, in definitiva le persone si ritrovano affogate in un eccesso di attività, con la conseguenza di non avere né tempo, né energie, per la cura del corpo.

Al di là di una psiche eccessivamente dominata dal senso del dovere, c’è da dire che anche la nostra società postmoderna contribuisce a provocare una condizione di affaticamento cronico, sia psicologico, sia fisico. Di conseguenza, si è generalmente passivi dal punto di vista fisico: non si riconosce il bisogno di attività del proprio corpo e, allo stesso modo, non si riconosce il bisogno del giusto riposo. Non si dorme il giusto, ci si iper-allena o si svolge un lavoro fisico per troppo tempo.

Dal punto di vista alimentare, si è passivi quando non si è in ascolto del corpo e dei suoi bisogni quanto a quantità e qualità del cibo. Anche l’orario in cui ci si ciba è importante e dovrebbe dipendere da quanto la persona è attivamente in ascolto dei propri bisogni: non solo non è utile mangiare quando si è sazi, ma può addirittura essere dannoso per la salute.

Il corpo umano ha poi bisogno di respirare, di stare all’aperto, di essere esposto al sole, di essere scaldato e raffreddato, e così via. Per ciascuno di questi bisogni, si è passivi quando non si è in contatto col proprio bisogno fisico reale e si agisce in modo automatico.

Si è dunque passivi nel prendersi cura del proprio corpo quando si seguono acriticamente (o passivamente, appunto) delle indicazioni esterne, quali le abitudini familiari o culturali, le indicazioni di terze persone più o meno informate. Ma, attenzione, si può essere passivi fisicamente e trascurare i bisogni del proprio corpo, quando invece di ascoltare il corpo, ci si muove per compensare e non sentire il proprio mondo emotivo. Questo è il caso, ad esempio, della persona che mangia troppo per non stare in contatto con le proprie emozioni di tristezza, paura, rabbia e vergogna. In questo caso, la passività fisica si unisce alla passività emotiva.

 

Segni di passività emotiva

La passività emotiva è il contrario dell’intelligenza emotiva. Laddove essere intelligenti e attivi dal punto di vista emotivo comporta saper riconoscere, saper gestire ed utilizzare le proprie emozioni, la passività emotiva implica:

  • Il non saper cogliere le proprie emozioni.
    Ad esempio, non so rispondere alla domanda: “Che emozione sto provando in questo momento?”.
     
  • Il non saper gestire le proprie emozioni.
    Questo ha luogo quando siamo dominati dalle emozioni, anziché dominare noi stessi le emozioni. 
    Ad esempio, in un conflitto ritengo di avere tutte le ragioni dalla mia parte ed esprimo la mia rabbia in modo scomposto contro l’altra persona. In questo modo getto del discredito su di me e mi auto-danneggio dal punto di vista pratico.
    Altro esempio: in una riunione di lavoro, mi lascio dominare dalla vergogna e non esprimo le mie idee, che potrebbero essere valide o no, ma non lo saprò mai. 
     
  • Il non saper mantenere la motivazione verso i propri obiettivi.
    Esempio: nel mezzo di una tempesta emotiva (sia questa una sottile pioggia continua o un acquazzone battente di grandine e nevischio) decido di lasciare il mio partner in modo impulsivo e distruttivo.
     
  • Il non saper cogliere le emozioni altrui.
    Ad esempio: un mio caro amico ha subito un brutto incidente e, al telefono, non mi informo su come sta, ma gli racconto di quanto sono felice per una cosa bella che sto vivendo.
     
  • Il non saper coinvolgere gli altri.
    Esempio: voglio organizzare un’uscita al cinema con degli amici, ma non condivido con loro il mio entusiasmo per il film che ho scelto. È meno probabile che la serata riesca perché non tento di motivarli spiegando loro le ragioni per cui andare al cinema assieme potrebbe essere una bella esperienza.

In questo articolo di approfondimento fornisco delle indicazioni per sviluppare l’intelligenza emotiva e divenire emotivamente attivi.

 

Segni di passività mentale

Si è passivi mentalmente quando, per abitudine, si adottano delle convinzioni e delle idee senza valutarle e sceglierle. Questo generalmente avviene perché non si è consapevoli di tali convinzioni mentali e, di conseguenza, non si ha nemmeno l’opportunità di prenderle in considerazione e, eventualmente, sceglierle in base ai propri criteri di opportunità e di moralità. Insomma, si è passivi mentalmente allorché si sposano delle convinzioni perché così fanno gli altri, oppure perché lo si è sempre fatto, perché abbiamo imparato queste idee da piccoli, e non perché tali modalità di pensare siano utili o buone.

In particolar modo nell’infanzia si sono assunte le convinzioni che si utilizzano ancora oggi passivamente, perché lì-e-allora queste ci hanno permesso di adattarci all’ambiente e di sopravvivere. Oggi tali convinzioni mentali, se utilizzate ancora e ancora in modo inconscio e passivo, possono provocare difficoltà e rigidità.

Riporto ora le convinzioni cui tipicamente le persone si affidano in età adulta in modo passivo e acritico. Utilizzo qui la struttura dell’Enneagramma, perché questo sistema esemplifica brillantemente il modo automatico di funzionare dell’essere umano.

Lo scopo di questo elenco è quello di permettere al lettore di riconoscere la convinzione mentale principale cui ancora oggi aderisce in modo meccanico, al fine di auto-osservarsi con un maggior dettaglio e divenire sempre più libero:

  1. “Per essere amato e apprezzato devo fare le cose bene”
    Questa convinzione di base, se assunta acriticamente e passivamente, genera tutta una serie di rigide convinzioni conseguenti: “Tutti devono agire sempre bene”, “La perfezione è una virtù di per sé”, “Se tutti agissero come me, il mondo sarebbe un posto migliore”, ed altre. Ne derivano risentimento verso gli altri e auto-attacchi alla propria persona quando si valuta il proprio e l’altrui agire non all’altezza delle proprie aspettative.
    Antidoto per contrastare la passività: “Prima di agire, mi fermo un momento per valutare, magari assieme ad una persona di fiducia, cosa sia davvero buono e utile fare. Mentre agisco mi ricordo che sono degno d’amore, anche se non faccio le cose in modo perfetto”.
     
  2. “Per essere amato e ricevere cure devo prendermi cura dell’altro”.
    Questa convinzione, quando è presente nella psiche in modo inconsapevole, tende ad attivarsi in particolar modo allorché l’altro sia percepito come sofferente, o debole o comunque in difficoltà. Ne conseguono degli assunti mortiferi, quali: “I miei bisogni vengono dopo”, “Non faccio abbastanza per gli altri, sono una persona egoista”, “Le mie premure non vengono mai ricambiate equamente”. Non sono rari i vissuti di colpa, di rabbia o depressivi.
    Antidoto per contrastare la passività: “Qual è il mio bisogno in questo momento? Non mi è facile capirlo, sono confuso proprio perché non sono abituato a farmi questa domanda, motivo per cui continuerò a pormela, perché anche io ho i miei bisogni, come ad esempio il bisogno di ricevere cure e amore”.
     
  3. “Per essere amato e accettato devo essere un vincente”.
    Questa nociva convinzione genera tutta una serie di conclusioni, altrettanto nocive: “Non sarò mai abbastanza bravo”, “L’ambizione è una virtù di per sé e la competizione va sempre bene”, “Non bisogna mai farsi distrarre dalle emozioni”, “Finché sono occupato, non c’è pericolo”. Attenzione però allo stress cronico che, nel lungo periodo, può danneggiare profondamente il proprio sistema psico-fisico.
    Antidoto per contrastare la passività: “Mi devo ricordare continuamente che sto a cuore ad alcune persone a prescindere dai miei risultati. Allo stesso modo, anche io posso apprezzarmi per quello che sono e non per lo status materiale o sociale che ho raggiunto e, in tal modo, prendermela con maggiore calma. Nella calma posso provare empatia per me e la mia stanchezza e, naturalmente, per gli altri”.
     
  4. “Per essere amato e lodato devo essere speciale, sensibile e artistico”.
    Quando questa convinzione è assunta passivamente, conduce a delle faticose conclusioni, ad esempio: “Nessuno capisce la mia spiccata sensibilità (o la mia viva intelligenza emotiva, o il mio pensiero originale, o le mie doti artistiche)”, “Il mondo è un luogo gretto e insensibile, guarda gli altri, ottengono questo o quello senza sforzo e, soprattutto, senza merito”, “È bene dedicarsi a coltivare le proprie passioni e i propri ideali senza limiti”.  Non è raro che tali credenze producano tempeste emotive di paura, di rabbia o di depressione.
    Antidoto per contrastare la passività: “In questo momento non manco di nulla, posseggo tutto ciò di cui ho bisogno per procedere nella vita seguendo i miei valori, senza fretta, un passo alla volta. Sono già una bella persona e quando me lo dimenticherò, cercherò conferme nelle persone care intorno a me chiedendo loro in modo diretto carezze e riconoscimenti”.
     
  5. “Per essere amato e protetto devo resistere da solo con i miei mezzi finché l’altro non mi offrirà amore spontaneamente, ma quando e se questo accadrà, non è prevedibile”.
    Credere passivamente a questa idea lascia la porta aperta a una sfilza di convinzioni irrazionali, quali: “Devo restare in guardia perché l’altro si avvicina generalmente solo per sottrarre e pretendere”, “È bene coltivare la mia autosufficienza accumulando il più possibile sapere e beni materiali”, “Meno si dà, meglio è”. Naturalmente tali convinzioni producono freddezza d’animo ed uno stile di vita arido e ritirato.
    Antidoto per contrastare la passività: “Posso scegliere di avvicinarmi o di allontanarmi dagli altri, perché esistono le belle e le brutte persone ed io sono in grado di valutarle. Posso uscire dalla mia fortezza interiore, allentare il controllo sulla mia vita e miei sentimenti. Posso concedermi il piacere e perfino il lusso”.
     
  6. “Per essere amato devo rimanere costantemente all’erta per prevenire i pericoli che possono minacciare me e le persone care”.
    Questa faticosa convinzione, se accolta senza filtri, porta a illazioni, quali: “Il mondo è un luogo pericoloso”, “La prudenza è una virtù sempre, senza se e senza ma”, “O evito l’azione, o mi ci butto a capofitto senza valutarne le conseguenze”. Lo stato di vigilanza cronica che tali convinzioni comportano, può facilmente condurre allo sfinimento fisico o all’esaurimento mentale.
    Antidoto per contrastare la passività: “Un attimo! Qui-e-ora la situazione è davvero minacciosa? C’è davvero pericolo? No, come spesso avviene, la mia paura non è realistica, non è giustificata da quello che sta succedendo in questo esatto momento. Di conseguenza, scelgo di non farmi coinvolgere da questi pensieri impauriti. E mi rilasso”.
     
  7. “Per essere amato devo affascinare l’altro mostrandomi allegro e pieno di progetti”.
    Se questa convinzione è libera di agire senza freni nella nostra psiche, può generare altre credenze irrazionali, quali: “La vita è degna di essere vissuta solo se vi è nel futuro un progetto entusiasmante da perseguire, non contano i risultati ma i sogni”, “Non è bene ascoltare chi soffre, ti porta solo in basso”, “Innanzi tutto, il piacere”. Simili modi di vedere il mondo possono condurre all’illusione, quando le cose vanno bene, e all’insofferenza, quando le cose vanno male.
    Antidoto per contrastare la passività: “Non c’è bisogno di fuggire regolarmente dal momento presente. Il qui-e-ora va bene così com’è, anche con la noia o le emozioni negative. Ed anch’io vado bene così come sono”.
     
  8. “Per essere amato devo avere potere sugli altri”.
    Questa convinzione pericolosa ha delle conseguenze nel modo di vedere sé stessi, l’altro e il mondo: “Il mondo si divide in due categorie: quelli che stanno sotto e quelli che stanno sopra. Io ovviamente sto sopra”, “Ciò che desidero me lo prendo perché me lo merito. E me lo merito per il solo fatto che lo desidero”, “Delegare è impossibile, occorre sempre avere il controllo su tutto e su tutti”. Queste convinzioni possono innescare eccessi d’ira e di aggressività o, quando questi non sono possibili, attacchi verso di sé sotto forma di depressione.
    Antidoto per contrastare la passività: “Non ho bisogno di dominare l’altro per ricevere amore. Anzi, per ricevere vero amore, rispetto e cure, non devo spaventare né dominare chi ho davanti ma, piuttosto, mettermi sul suo stesso piano, prendendomi cura dei suoi e dei miei sentimenti”.
     
  9. “Per ricevere amore, gli altri devono essere calmi e sereni”.
    Questa convinzione produce modi di pensare deleteri, quali: “Non bisogna mai affrontare di petto gli altri, meglio aspettare passivamente che i problemi con gli altri si risolvano da sé”, “Se gli altri litigano con me o fra di loro, è una catastrofe”, “Mi ritiro in me perché così posso distrarmi e darmi piacere da me, piuttosto che chiedere agli altri col rischio di inquietarli”
    Antidoto per contrastare la passività: “Se gli altri sono arrabbiati fra di loro o con me, è un problema loro: io posso comunque uscire dal mio isolamento. Il mio punto di vista e i miei bisogni contano, posso prendere posizione e dissentire apertamente perché io ho i miei obiettivi”.

 

Il disagio del cambiamento

È bene riflettere su quali siano i segni di passività che maggiormente stanno limitando la libera espressione della nostra creatività. In altre parole, se si desidera fiorire, migliorare la propria condizione di vita interiore ed esteriore, occorre individuare dove ci si sta inconsapevolmente passivizzando e bloccando sul piano fisico, emotivo o mentale. Come accennato, i tre piani possono intrecciarsi e tutto può diventare più complicato, ma è inutile perdersi nell’eccesso di complessità. Meglio compiere la riflessione che propongo in questo articolo rimanendo semplici: “Qual è la mia modalità di passivizzarmi ora?”. Per poi individuare la modalità principale che maggiormente ci sta limitando in questo momento della nostra vita. Magari tra un anno, alla stessa domanda, risponderemo in un altro modo.

La riflessione naturalmente proseguirà con la domanda: “Voglio fare qualcosa di diverso?”.

Ed a questo interrogativo, ovviamente, seguirà la domanda: “Cosa voglio fare di diverso?”.

In tal modo, una volta individuata la propria modalità passivizzante prevalente in questo momento, è possibile mettere in discussione tale modalità, per poi decidere di fare qualcosa di diverso e di intraprendere un percorso di cambiamento che ci impegni interiormente ed esteriormente.

Solo a titolo di esempio: se una persona, a seguito di queste riflessioni, coglie in sé il meccanismo mentale del perfezionismo, ossia se scopre di essere influenzata inconsciamente dalla convinzione: “Per essere amata e apprezzata devo fare le cose bene”, può dirsi: “D’accordo, mi accorgo di aver utilizzato in passato questa credenza perfezionista in eccesso. Va bene, quello che è stato è stato, da adesso in poi voglio fare qualcosa di diverso, voglio essere più indulgente con me stessa, per cui cercherò di accettare che posso fare le cose anche meno bene e sentirmi ok

Però.

Però nel decidere di abbandonare una modalità passiva, ci si scontra senz’altro con l’inerzia, con il fatto che per anni – talvolta decine di anni – si è pensato, si è sentito e ci si è comportati in un modo passivo.

Se per diversi anni ci si è passivizzati fisicamente, emotivamente o mentalmente, decidere di cambiare rotta significa inevitabilmente scontrarsi con l’inerzia psichica, ossia con la tendenza della psiche a mantenere le sue abitudini. In pratica, ciò che avverrà è che la persona che ha deciso di attivarsi, si sentirà presto stanca, o ansiosa, o demotivata.

Nell’esempio della persona che decide di modificare il proprio atteggiamento di perfezionismo, ciò si traduce nel fatto che questa persona, quando deciderà di fare le cose (anche) meno bene e di dare spazio (anche) al rilassamento e alla gioia, dopo un primo momento di sollievo, si sentirà poi ansiosa, confusa, in colpa, oppure arrabbiata con sé stessa.

Questa reazione è in una certa misura normale e prevedibile: è impossibile cambiare un’abitudine radicata, per quanto irrazionale o improduttiva essa sia, in modo immediato e definitivo, immaginando che da quel momento in poi si vivranno unicamente sensazioni positive e di soddisfazione. Nel cambiare un’abitudine consolidata, quando “si esce dalla zona di comfort”, come usa dire oggi, è invece normale provare disagio.

Se la persona riuscirà ad affrontare tale disagio da sé, mantenendo salde nel tempo le proprie risoluzioni, il disagio, fatto di ansia, confusione, colpa ed altri vissuti similari, tenderà naturalmente e progressivamente ad affievolirsi.

In altri casi, però, il disagio del cambiamento diviene eccessivamente debilitante per la persona che, a questo punto, si ritrova incastrata tra la voglia di cambiare e l’impossibilità di cambiare. Tale situazione scomoda può derivare dal fatto che la passività (fisica, emotiva o mentale) poggia le sue radici su degli apprendimenti infantili traumatici.

Riprendendo ancora una volta il nostro esempio relativo al perfezionismo, la persona può aver imparato la modalità perfezionista a seguito di una serie di episodi traumatici con i propri genitori: da piccola se non faceva le cose bene veniva regolarmente biasimata, allontanata fisicamente ed emotivamente e, talvolta, addirittura punita fisicamente.

La sua odierna convinzione mentale perfezionista che si è formata lì-e-allora durante tali vicende traumatiche, qui-e-ora trae la sua forza e la sua rigidità da tali traumi. Di conseguenza da adulta, per modificare il suo atteggiamento perfezionista, per liberarsi dei suoi limiti mentali, la persona del nostro esempio avrà bisogno di affrontare i traumi infantili che la stanno bloccando. In questo caso, per uscire dalla passività e ritrovare il benessere psicologico, le potrà essere utile elaborare i traumi infantili, facendo i conti con gli eventi infantili più o meno relegati nell’inconscio e con le relative emozioni represse.

Per concludere, vale la pena di ricordare, che non sempre è necessario effettuare un lavoro sui traumi infantili. Talvolta è sufficiente prendere coscienza dei propri meccanismi passivi, decidere di attivarsi e “mantenere la barra dritta” per un tempo sufficiente a liberarsi della propria meccanicità.


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